PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICOANALISTA O PSICHIATRA?

In questi giorni sui social gira una campagna per superare lo stereotipo secondo cui dallo psicologo ci vanno solo i matti.

Già la parola “matti” apre un mondo, ma lasciamolo da parte per ora.

L’iniziativa sui social dice “io vado dallo psicologo”

Chi è lo psicologo?

Non è che forse “io vado dallo psicoterapeuta”?

E che differenza c’è tra uno psicologo e uno psichiatra?

Chiaramoci un po’ le idee

Quale differenza c’è fra uno psicologo, uno psichiatra, uno piscoterapeuta? e lo psicoanalista?

La prima differenza sostanziale è il percorso di studi, la seconda è il suo ambito di lavoro.

PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA PSICOANALISTA PSICHIATRA
PERCORSO DI STUDI 5 ANNI facoltà di psicologia+ un anno di praticantato+ esame di abilitazione Ha seguito la formazione per essere psicologo oppure medico di base, poi si è specializzato in psicoterapia: 4 anni di scuola di specializzazione e praticantato (la maggior parte delle scuole di psicoterapia prevedono un percorso di psicoterapia personale per lo specializzando) È uno psicoterapeuta.

La psicoanalisi classica è solo uno dei tanti indirizzi di specializzazione, è famosa perché è quella proposta da Freud.

Ha seguito una formazione medica (5 anni) e poi si è specializzato in psichiatria (4 anni).
COSA PUÓ FARE -effettuare colloqui di sostegno

-somministrare test

-attuare consulenze diagnostiche e psicologiche

-se riscontra un disturbo psicologico non può fare terapia, ma deve inviare ad uno psicoterapeuta

-non può somministrare farmaci

-curare di disturbi psicopatologici della psiche umana di natura ed entità diversa, che vanno da forme di modesto disagio personale alla sintomatologia grave

-promuovere la crescita e la consapevolezza personale anche in assenza di sintomi

-può somministrare farmaci solo se è medico

Vedi psicoterapeuta trattare i disturbi mentali da un punto di vista medico, considerando il funzionamento o non funzionamento del sistema nervoso in senso biochimico e attraverso la prescrizione di psicofarmaci
A CHI MI RIVOLGO? Se sento il bisogno di un sostegno psicologico in un momento particolare della vita come può essere una gravidanza, un cambio di lavoro, un lutto, la persona indicata è lo psicologo.

Se voglio migliorare la mia qualità della vita e intervenire in modo radicale nelle mie modalità di entrare in relazione con gli altri e di affrontare gli eventi della vita, mi devo rivolgere ad uno psicoterapeuta.

Se invece siamo in presenza di un sintomo specifico, va innanzitutto esclusa una base organica e questo lo può fare il medico di base o il pediatra se si tratta di bambini.

Se il disturbo non ha una causa organica, ci si può rivolgere ad uno psicologo che può fare una valutazione per stabilire se è sufficiente un consulto o se è necessaria una psicoterapia o un intervento psichiatrico.

In generale il medico di base suggerisce già una psicoterapia o un intervento psichiatrico.

È bene sapere che la somministrazione di farmaci per disturbi psicologici  (cosa che i medici di base possono fare da un punto di vista legale) senza essere accompagnata da una psicoterapia personale può essere controproducente.

In caso di patologie gravi lo psicoterapeuta e il medico di base o lo psichiatra dovrebbero collaborare per la buona riuscita della terapia.

Sapevi che esiste un albo degli psicologi?

Questo è il link dell’ordine dell’Emilia Romagna dove puoi cercare il professionista che t’interessa, scoprire se è psicologo o anche psicoterapeuta e quale indirizzo segue: ricerca iscritti albo

Vuoi avere altre informazioni sull’ambito di intervento dello psicologo? Aree professionali psicologo

ATTACCO DI PANICO? SÍ GRAZIE!

Cos’è l’attacco di panico?

La prima cosa da sapere è che, secondo le statistiche, fino a una persona ogni 25 soffre di attacchi di panico.

L’attacco di panico è un concentrato di paura per niente piacevole. A livello fisiologico si esprime con palpitazioni, vertigini, nausee, aumento della sudorazione, debolezza, tremori, aumento della frequenza respiratoria, sensazioni di svenimento, nodo alla gola, paura di morire, di impazzire.

A volte gli attacchi di panico portano la persona che li sperimenta a evitare tutte quelle situazioni che potrebbero scatenarne uno.

In questo modo la vita di quella persona si impoverisce e lasciando la persona sempre in allerta.

Si corre il rischio, paradossalmente, di dare un buon motivo all’attacco di panico di ripresentarsi.

Infatti l’attacco di panico spesso si ripete per la grande angoscia che prova la persona alla sola idea che si possa ripresentare.

Si dice infatti che l’attacco di panico sia la paura di aver paura.

Cosa è bene sapere riguardo l’attacco di panico?

Tentare di gestire l’ansia, di tenere sotto controllo l’attacco di panico può far peggiorare il sintomo.

La cosa migliora da fare è lasciare andare il controllo e accettare le manifestazioni corporee, senza prenderle troppo sul serio. E’ solo il nostro corpo che ci vuole parlare e lo fa ad alta voce.

Seppur invalidante, l’attacco di panico compare per un buon motivo. Come ogni sintomo, secondo l’approccio gestaltico, è il miglior adattamento possibile che quella persona è stata in grado di trovare in quel momento e in quell’ambiente (inteso non solo fisico, ma anche relazionale).

Anche se probabilmente l’attacco di panico ha un evento scatenante, questo non può essere considerata la causa.

Infatti l’attacco di panico non è semplice paura davanti a qualcosa di pericoloso, come un leone, un incidente d’auto, un terremoto.

L’attacco di panico ha radici più profonde, nel mondo interno della persona.

Come si interviene in caso di attacchi di panico?

Il trattamento farmacologico può essere prescritto solo da un medico o psichiatra. Può essere utile quando gli attacchi di panico hanno reso invalidante la vita della persona che ne soffre.

I farmaci da soli, però, non bastano.

Al contrario l’utilizzo di farmaci, se non accompagnato da una psicoterapia, è un modo pericoloso di affrontare il problema.

Apparentemente rimuove il sintomo, ma in realtà è come spegnere la spia della macchina, senza andare a riparare il danno. Prima o poi c’è il rischio che ci lasci a piedi.

Come funziona la psicoterapia della Gestalt?

Quando una persona sta bene, sente i propri bisogni e le proprie emozioni e sceglie cosa vuole per se stesso in quel momento.

La dinamica bisogno-scelta-azione è continua e fluida: soddisfatto un bisogno, questo va sullo sfondo e in figura ne compare un’altro.

Quando questo meccanismo naturale s’inceppa, compare un sintomo. La persona non è più in grado di sentire i suoi bisogni e soddisfarli, in figura rimane sempre e solo il sintomo.

La psicoterapia della Gestalt aiuta innanzitutto a stare nel qui ed ora. L’orientamento al futuro, infatti, rende l’attacco di panico, e i sintomi di ansia in genere, più probabili.

Inoltre accompagna gradualmente la persona alla scoperta delle radici profonde che hanno portato la persona a questo adattamento non ottimale. Le Gestalt inconcluse che si sono accumulate avranno in terapia una nuova occasione di chiusura.

In questo modo si ripristina la naturale capacità di restare in contatto con se stessi e prendersi cura di sé, in un ottica responsabile. Questa parola infatti significa “capace di rispondere” “capace di far fronte” (respons-abile).

Perché l’articolo s’intitola “Attacco di panico? Sì grazie!”

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Soffrire di attacco di panico, così come di qualsiasi altro sintomo, non è piacevole, ma costringe a portare l’attenzione su se stessi.

È un’occasione per iniziare a prendersi cura di sé, esplorando il proprio mondo interno accompagnati da uno psicoterapeuta.

È un viaggio impegnativo, ci vuole coraggio e costanza, ma il regalo che ci si fa è davvero grande. Scoprire se stessi e permettersi di essere semplicemente come siamo, con una forza, una creatività che nemmeno sappiamo di avere.

L’attacco di panico ci da un alt bello deciso per avvisarci che così non possiamo andare avanti.

Sta a noi scegliere se cogliere l’occasione.

IL PARTO E LE SUGGESTIONI D’ORIENTE

Le donne partoriscono dall’alba dei tempi in ogni angolo della terra. Da un punto di vista fisico e biologico il parto è identico in ogni luogo, ma ogni cultura ha costruito intorno a questo evento un rituale diverso.

Nella nostra società occidentale la consuetudine è quella di recarsi in ospedale, in case di maternità o partorire in casa propria con il supporto di due ostetriche come sancisce la legge italiana.

Questo è quello che ci si aspetta e ci si immagina del parto qui, ma come viene vissuto in altri paesi? Quali suggestioni possiamo fare nostre curiosando in altre culture?

Se volgiamo lo sguardo ad oriente troviamo la danza del ventre. Questa veniva praticata durante il parto, infatti facilita la discesa del bambino, allevia i dolori delle contrazioni, porta l’ascolto sul corpo e aumenta la consapevolezza delle parti del corpo legate al parto. Ovviamente la consapevolezza di tali parti del corpo è maggiore quanto è maggiore l’esperienza di danza della donna. La danza del ventre ha una serie di benefici muscolari durante ma anche dopo il travaglio, per riportare tonicità ad esempio al pavimento pelvico.

La cosa particolare e interessante della danza del ventre è che in origine non era soltanto la partoriente a danzare: le donne danzavano intorno a lei, suggerendole i movimenti, invitandola a danzare e accompagnandola con il suono ritmico della cintura cha avevano legato sui fianchi. La partoriente non era lasciata sola, al contrario era contenuta da una rete relazionale, da una presenza forte che mandava messaggi didsc_0318 solidarietà e di cura attraverso la danza. Quindi non consigli verbali, razionali, ma suggestioni simboliche, senza parole. La partoriente poteva così guardare le altre donne alla ricerca di suggerimenti e scegliere quelli più interessanti per lei, oppure poteva rimanere concentrata su di sé senza essere disturbata da parole invadenti, senza sentirsi in ogni caso abbandonata perché il suono delle cinture delle sue colleghe restava una presenza costante e rispettosa.

Nonostante la danza del ventre sia spesso suggerita nei corsi preparto, la potenza che può avere un gruppo come sostegno in questo difficile passaggio si è persa nel tragitto da oriente a occidente.

Anche il suono prodotto dalle cinture non è irrilevante: da un lato, ascoltare un suono ritmico aiuta a scivolare in uno stato ipnotico (vedi Il parto e lo stato alterato della mente); dall’altro, la paura di lasciarsi andare e abbandonarsi totalmente all’istinto, la paura di abbandonarsi ed entrare in trance può affievolirsi grazie alla presenza di un gruppo di altre donne, alcune testimoni dello stesso viaggio, che producono con i loro movimenti un suono che c’è prima, durante e dopo il viaggio. Come una sorta di continuità della realtà e di possibilità di ritorno.

Sempre in oriente, dopo la danza troviamo un canto: il canto carnatico che, già negli anni 60, il ginecologo francese Frédérick Leboyer suggerì di utilizzare durante il parto.

Si tratta di un canto tradizionale indiano utilizzato per facilitare la presa di coscienza di se stessi attraverso il respiro e il suono e per stimolare la meditazione. Il canto carnatico prevede dei vocalizzi durante l’espirazione: si inizia con una “m”, si prosegue con le vocali e si conclude il ciclo di nuovo con una “m” (per questo viene anche chiamato canto delle vocali). Nella tradizione indù è previsto anche uno strumento musicale, solitamente una tampura o un tamburo che scandisce il tempo. Oltre a favorire la concentrazione e la meditazione, si ritiene che l’apertura della gola influenzi l’apertura della vagina e faciliti quindi il parto.

Sia la danza che il canto hanno in comune una caratteristica: non sono elementi razionali, logici bensì sono espressioni corporee, emotive. Accompagnano la donna, la rassicurano adattandosi al suo stile, al suo carattere e alla sua esperienza attuale senza imporsi in un modo rigido.

Cantate e ballate signore mie: sta iniziando un viaggio!

Dr.ssa Violetta Molteni

QUALI STRUMENTI PER UN PARTO SERENO?

 

Quando si avvicina la data presunta del parto, spesso ci si sente insicure, con un misto fra paura e desiderio che il momento arrivi presto. Il corso pre-parto è finito, eppure ci sembra di essere disarmate come prima. Se da un lato è normale temere qualcosa di sconosciuto e così carico di emozione, è altrettanto scontato desiderare di giungere a tale data il più preparate possibile.

Quali sono allora le armi che abbiamo e possiamo utilizzare davvero durante il parto?

Fra i vari strumenti che possono essere di accompagnamento durante il viaggio del partorire ci sono sicuramente la musica, il respiro e la propria voce.

La musica è utile perché favorisce il rilassamento, ma non solo: alcune frequenze aiutano ad entrare in uno stato ipnotico (per approfondire leggi IL PARTO E LO STATO ALTERATO DELLA MENTE). Ne sono un esempio i ritmi pulsanti dei tamburi che gli sciamani utilizzano per entrare in trance. Organizzatevi con mezzi vostri (gli ospedali non sempre ne sono forniti) per poter ascoltare durante il travaglio e in sala parto una musica che vi piace, o ancor meglio una musica ricca di tamburi.

Concentrarsi sul respiro, invece, è un11849866_888690404544971_2079133398_n buon modo per entrare in contatto con il qui ed ora e già questo aiuta a sfumare tutte le paure non contingenti, legate a fantasie e racconti. Cosa vuol dire questo? Le paure che sono nate ascoltando i racconti di parti tremendi (racconti spesso esagerati e a dir poco inverosimili), oppure l’idea spaventosa che noi abbiamo del parto, affievoliscono se si ascolta e ci si concentra sul proprio respiro e ci si fida di lui, del suo ritmo, della sua capacità di continuare il suo mestiere senza il
nostro controllo.

La voce, i vocalizzi (vedi IL PARTO E LE SUGGESTIONI D’ORIENTE) durante le contrazioni non sono soltanto un modo per esprimere il dolore, ma sono anche espressione di sé e della propria identità e può essere di conforto nel momento in cui ci si deve abbandonare oltre i propri confini. Infatti la voce è in continua trasformazione insieme all’evento del parto e porta un continuo rimando sia di ciò che sta accadendo (ad esempio si riflettono nella voce tutti i cambiamenti fisici), sia della propria integrità e continuità. Posso cantare il mio dolore, se mi sento in imbarazzo posso cantare anche il mio imbarazzo e concentrandomi sul suono che esce da me posso trasformarlo in un suono che mi piaccia di più, che mi dia serenità. Per favorire questa trasformazione, forse mi verrà spontaneo cambiare posizione, utilizzare altri muscoli e questo si rifletterà nella voce e nel corpo in un continuo ciclo di accomodamento. È infatti il corpo stesso lo strumento musicale della voce: se vi sono cambiamenti nel corpo, ci saranno nella voce e se ci sono cambiamenti nella voce, ci saranno nel corpo. Durante il parto, cantare rassicura e rilassa la mamma ma anche il bambino, che partecipa attivamente al parto.

Il respiro in una certa misura, la voce in maniera più forte perché torna come suono, danno alla partoriente la possibilità di sperimentarsi nella sua interezza: nonostante i confini cambino fisicamente e mentalmente, io non mi sto spezzando, io sono il mio respiro, io sono la mia voce.

Un altro elemento banale, ma molto utile è la borsa dell’acqua calda: portatevela da casa, anche elettrica perché può essere sufficiente ad alleviare il dolore e allentare i muscoli. A questo scopo può contribuire anche un massaggio.

Quindi insieme alla valigia per l’ospedale, ricordatevi di preparare la borsa dell’acqua calda, un lettore mp3 o simili e una musica ritmica.

E quando arrivano le contrazioni, lasciate a qualcun altro il compito di contare il tempo che passa: voi concentratevi sul vostro respiro e cantate la vostra trasformazione con dei vocalizzi e affidatevi al vostro istinto lasciando spegnere la razionalità.

Dr.ssa Violetta Molteni

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IL PARTO E LO STATO ALTERATO DELLA MENTE

Cosa succede alla mente della donna durante la gravidanza e il parto? Cosa accade veramente da un punto di vista ormonale e di onde cerebrali? E nel concreto, cosa comportano e a cosa servono questi cambiamenti durante la delicata fase della gravidanza, ma soprattutto del parto?

Quando si parla di preparazione al parto ci si riferisce tipicamente al corso preparto, condotto da un’ostetrica. Il corso è principalmente informativo e spiega cosa accadrà fisicamente, come riconoscere l’inizio del travaglio, quando è il momento di recarsi in ospedale. A volte ci sono incontri incentrati su esercizi per la consapevolezza delle parti del corpo coinvolte nel parto. Le altre informazioni riguardano l’allattamento, le prime cure al neonato e tutto ciò che ha a che fare con il dopo parto.
Insomma un’ondata di informazioni, come se ti spiegassero in dieci incontri teorici come pilotare un jet e poi ti trovassi a pilotarlo da solo in una tempesta o al massimo con una voce nelle cuffie che ti dice cosa fare.
Tra l’altro a partorire non è un corpo fisico né l’essenza della razionalità, bensì una donna, una persona con il suo carattere e la sua storia personale. Una persona che si trova a vivere un’esperienza estrema per il suo corpo, ma anche per la sua mente.
L’esperienza del parto è generalmente fuori dai confini dell’io di una persona.
Per confini dell’io intendo tutto ciò che una persona può e si permette di contattare: ad esempio per qualcuno può essere impensabile girare nudo per strada, non perché sia un fatto impossibile fisicamente ma perché non rientra in ciò che lui si permette di fare ed essere. Per questa persona girare nuda per strada è fuori dal confine dell’io.
La mamma durante il travaglio e il parto deve entrare in contatto con il proprio dolore fisico, con il proprio corpo che prende il sopravvento e partorisce. Stiamo parlando di un corpo completamente disinibito, animale: questo difficilmente fa parte della propria identità (perlomeno in questa società). Per qualcuno può essere molto lontano dalla propria identità, dal confine che ha fissato per se stesso; per qualcun altro può essere a portata di mano.
Il punto è che quando ci si avvicina alla linea di demarcazione dei propri confini dell’io nasce la paura: paura di uscire dal confine conosciuto, paura di perdere la propria identità, paura di diventare pazzi.
In realtà non si diventa pazzi partorendo e nemmeno correndo nudi per strada, ma questa è la paura che nasce.
Già durante la gravidanza la donna si è allenata ad allargare gradualmente i suoi confini, ad uscire da ciò che le era noto in precedenza; ma durante il parto l’allargamento dei confini è repentino.
Cosa accade esattamente alla mente durante il parto?
Per spiegarlo bisogna partire dal dolore.
Il dolore del parto non è un dolore continuo: le contrazioni si intervallano a momenti di rilassamento e questa intermittenza del dolore permette la produzione a picco di adrenalina che a sua volta stimola la produzione di endorfine e ossitocina.
Se da un lato le endorfine hanno un effetto analgesico, dall’altro inducono uno stato alterato di coscienza: la razionalità viene inibita e si entra in una sorta di stato di trance.
Quindi l’esperienza del parto non è soltanto quella di un corpo che si dilata dolorosamente, ma anche una razionalità che si spegne (non preoccupatevi: solo temporaneamente!!).
Per questo oltre alla paura del dolore e di ciò che accade al corpo, si aggiunge la p11875470_1616865105247372_1999860282_naura di perdere il controllo, di andare oltre la propria razionalità. Quando questo accade, il dolore non si percepisce più perché si è entrati in trance.
Parlando di onde cerebrali, già durante la gravidanza si assiste ad un cambiamento: le onde cerebrali della mamma diventano più lente inducendo uno stato di rilassamento profondo. Durante il parto, a causa dei picchi di dolore e la conseguente scarica intermittente di adrenalina, si attivano le onde cerebrali theta che sono quelle degli stati ipnotici.
Per quale motivo il parto spinge verso questa direzione?
Cosa c’è oltre i propri confini, oltre la propria razionalità?
C’è quella che in Psicoterapia della Gestalt viene chiamata saggezza organismica, ciò che permette all’organismo di autoregolarsi, in questo caso la naturale capacità della mamma di partorire. Inoltre, il dolore è irrilevante quando si è raggiunto lo stato ipnotico. Il dolore invece persiste se la mamma non si lascia andare e non permette alla razionalità di spegnersi temporaneamente, cioè se la mamma combatte contro il naturale processo del parto.
In questa società dove viene insegnato fin da piccoli il valore del controllo e della razionalità, mi viene da pensare che sia più terrificante la perdita di controllo e l’irrazionalità che non il dolore fisico in sé.
Fare un viaggio oltre i confini dell’io in maniera brusca come può accadere durante il parto è un’esperienza molto forte e può essere traumatica. È possibile che la depressione post-parto sia dovuta all’impossibilità della donna di integrare l’esperienza del parto entro i propri confini dell’io.
Per questo motivo, è essenziale che durante i corsi pre-parto venga preso in considerazione questo risvolto di parto come viaggio in uno stato alterato di coscienza, come viaggio oltre i confini del proprio io. In primis perché ritrovarsi a perdere il controllo senza sapere che è una buona cosa per l’esito del parto, è senz’altro spaventoso.
In ogni caso, sapere non è cambiare: l’informazione non è sufficiente e la preparazione al parto ha bisogno di essere integrata con una preparazione ad andare oltre i propri confini, o perlomeno a rendere questi più flessibili. Infatti non è sufficiente voler perdere il controllo, voler spegnere la propria razionalità per farlo veramente: se è vero che oltre la propria struttura caratteriale troviamo la saggezza organismica, è anche vero che il carattere non cede facilmente il passo, ma può essere allenato.
La paura è controproducente nel parto perché non permette un totale abbandono, fisico e mentale. Allenare la mente ad allargare i propri confini, ad abbandonarsi al non controllo razionale è sicuramente un ottimo modo per diminuire la paura: se hai già pilotato un jet in precedenza, sarai certo più tranquillo.
Come in terapia, anche in questa esperienza è fondamentale il ruolo di chi segue il travaglio e il parto: in quest’ottica chi entra in sala parto come accompagnatore o chi lo fa di lavoro si trova davanti ad un’esperienza non medica, ma umana ed esistenziale. Per questo motivo è fondamentale che la persona che accompagna durante il parto sia in grado di stare in contatto con la partoriente e con se stessa, sia in grado di reggere il duro compito di essere soltanto un’osservatrice che lascia fare alla mamma quello che si sente. Usando termini gestaltici, sia capace di stare sullo sfondo ed essere di supporto, ma non protagonista. Insomma sia una persona che abbia fiducia in primis nella facoltà insita nella donna di partorire e soprattutto che sia davvero presente, in contatto.
La formazione di chi è presente in sala parto, ad esempio delle ostetriche, andrebbe arricchita con esperienze di conoscenza di sé e di contatto. Allo stesso modo la persona che entrerà in sala parto come accompagnatore (il compagno o chi la partoriente ha scelto) dovrebbe avere un’idea di quello che accade alla partoriente non soltanto fisicamente, ma anche in termini di trasformazione e stato mentale.

Dr.ssa Violetta Molteni

Vuoi essere davvero preparata al parto? Visita i CORSI ATTIVI