Spazio al rito

Oggi è il giorno di Halloween, festa che deriva probabilmente dalla festa Celtica Samhain che significa qualcosa come “fine dell’estate”, scelta poi per continuità della Chiesa Cattolica come festa di Ognissanti.

Come dice la parola stessa, la festa Celtica rappresentava la chiusura dell’estate e voleva essere di buon auspicio per l’inverno rigido che ai tempi rappresentava una vera e propria sfida per la vita. Inoltre si pensava che in questo giorno, che non apparteneva né all’anno vecchio né a quello nuovo, il regno dei vivi e dei morti potessero comunicare.

Samhain era una festa di rito propiziatorio insomma, dettata dalla paura della morte.

Riti diversi ne troviamo in ogni religione e ogni rito si declina in base alle tradizioni e ai valori.

Indipendentemente dal credo a cui ciascuno aderisce, ogni rito ha una funzione, non soltanto legata alla religione, ma soprattutto legata al bisogni psicologici del singolo individuo e della comunità.

Una funzione quindi concreta e reale, aldilà di ciò in cui ciascuno crede: i riti sono ponti.

I riti sono ponti che permettono alla persona di entrare in contatto con le proprie emozioni, dargli spazio, dargli espressione, dargli forma.

I riti collettivi inoltre servono per condividere le emozioni e sentire la forza dell’unione e lasciare la disperazione della solitudine.

Tornando alla festa di Samhain che coincide con il capodanno celtico, si pensava che chi fosse solo in questa notte esponesse se stesso e il suo spirito ai pericoli dei rigori invernali.

Fuor di credenza, questo era un rischio reale: dal punto di vista fisico, perché chi non aveva una rete, una comunità non aveva aiuti materiali per sopravvivere all’inverno in caso di bisogno; dal punto di vista psicologico perché si sarebbe trovato solo e senza conforto ad affrontare i pericoli della stagione fredda e la paura legata alla possibilità di non superarla.

Accendere insieme i falò, riunirsi per mangiare insieme, fare dei sacrifici non aumentava magicamente le loro possibilità di sopravvivenza che restavano comunque parzialmente fuori dal loro controllo.

Cambiava però lo spirito con cui avrebbero affrontato l’inverno, confortava la loro paura che aveva potuto trovare uno spazio di espressione e di condivisione all’interno della comunità.

Inoltre era un’occasione per celebrare, ricordare e piangere i propri cari perduti che, anche se non tornavano fisicamente dal regno dei morti, tornavano nella mente e nello spirito dei vivi che avevano bisogno di questo spazio e momento per esprimere dolore o gratitudine.

Il rito tra l’altro è caratterizzato da un fare concreto e l’attivazione del corpo è di grande aiuto per contattare le proprie emozioni.

In questi termini il rito è utile e efficace e diventa un ponte per prendersi cura di sé e degli altri.

Quest’anno sento più intensa e necessaria che mai questa festa: la morte ci aleggia intorno, a volte ci ha toccato o sfiorato molto da vicino.

I riti invece hanno subito una battuta d’arresto: molte persone infatti non aderiscono ad una religione particolare e tipicamente è proprio alla religione che viene imputato il compito di stabilire in quali occasioni e modalità istituire un rito.

Inoltre in questa pandemia ci sono stati luoghi e momenti in cui chi ha perduto un affetto, non ha potuto organizzare un funerale per un ultimo saluto, a volte non lo ha potuto nemmeno salutare di persona.

Le morti non piante, le paure che non trovano spazio per essere espresse e condivise, restano dentro di noi come pesanti macigni e rendono difficili cose semplici come dormire per citare uno dei sintomi psicologici più diffusi come effetto della pandemia.

Riprendiamo allora uno spazio spirituale come ponte per rientrare in contatto con noi stessi e le emozioni cristallizzate, anche se non abbiamo una fede religiosa: i riti sono un atto artistico e possono essere inventati, cambiati, trasformati attraverso i nostri simboli, i nostri valori e i nostri bisogni di espressione.

Dr.ssa Violetta Molteni

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