Diventare mamme al tempo del covid

Diventare mamme al tempo del Covid

Quella che segue è l’intervista ad un’ostetrica dell’ospedale Bufalini di Cesena, che ci racconta cosa significa diventare mamme al tempo del Covid. Per riservatezza rimarrà anonima.

Ho già affrontato questo tema nell’articolo nascere durante la pandemia. Qui trovate raccolte le testimonianze dirette dell’ostetrica intervistata e le prassi attualmente in atto nel reparto di ostetricia cesenate.

Mi è sembrato un atto dovuto, in questo periodo di incertezza dove non tutto si può rimandare, il parto ad esempio. Come tutto in questo periodo, anche l’esperienza del partorire in ospedale ha subito grandi mutamenti e non sapere cosa aspettarsi è un’ulteriore fonte di stress per le mamme e i papà. Per diventare mamme al tempo del Covid, la consapevolezza è il primo passo per poter agire attivamente nel mondo. Evitare di sapere come stanno le cose, nascondere la testa sotto la sabbia non diminuirà la paura, ma solo la presa di coscienza di tale paura.

Le emozioni che non senti, sono padrone di te.

Le emozioni che ascolti, sono la bussola in un cammino che scegli.

Le informazioni raccolte non intendono essere esaustive, ma soltanto dare un quadro del momento presente. Qualsiasi riferimento in generale è comunque da ricondurre all’esperienza dell’intervistata presso l’ospedale di Cesena. In altre realtà le procedure potrebbero essere diverse.

Vi invito in ogni caso ad informarvi direttamente presso il vostro ospedale, anche vista la rapidità con cui cambiano le cose.

Nonostante non sia un percorso rose e fiori quello che incontrerà la futura mamma, dall’intervista traspare non solo l’impegno del personale, ma anche il dispiacere di non poter fare di più al tempo del Covid. Anche il personale è fatto di madri, padri, figlie, figli e anche nonne e nonni.

È in questa umanità che appartiene a tutti noi che è possibile l’incontro.

Cercate l’incontro, cercatelo nella vostra e altrui umanità.

Buona lettura

Partiamo dall’arrivo in ospedale. Cosa deve aspettarsi una donna quando arriva in ospedale al tempo del Covid?

L’accesso in ospedale avviene all’ambulatorio urgenza che è subito fuori dal reparto di ostetricia. Una donna può accedere direttamente quando ha le contrazioni o per qualsiasi altro motivo clinico. In questo momento le donne prima di essere ricoverate per il travaglio devono avere un tampone covid valido, cioè un tampone che è stato refertato entro i 3 giorni precedenti. Questo significa che, se l’hanno già eseguito e non sono passati più di tre giorni, vengono ricoverate senza doverlo ripetere. Invece chi lo ha eseguito prima dei tre giorni precedenti, lo deve ripetere al momento del ricovero. Chi è in attesa del risultato di questo tampone, che in genere richiede 12 ore, viene messo in una sorta di area filtro fino al momento della refertazione. Anche durante l’isolamento sarà possibile ricevere visita dal compagno durante gli orari di visita prestabiliti. Se il parto dovesse avvenire in questo lasso di tempo alla donna verrà garantita la presenza del compagno durante tutto il travaglio attivo e fino al parto. L’assistenza ostetrica alle donne con tampone in corso o con tampone positivo non subisce ovviamente alcuna variazione, il personale indosserà dei dispositivi di protezione individuale aggiuntivi rispetto alla sola mascherina chirurgica.

Chi ha un tampone negativo viene ricoverato, come è sempre stato, in stanza con altre donne. Ovviamente si chiede alle donne di mantenere le norme di distanziamento e indossare la mascherina in reparto durante tutto il ricovero.

Compreso il travaglio e il parto?

È chiaro che la mascherina in un momento come il travaglio è consigliata, ma non sempre tollerata quindi le ostetriche attuano delle misure di protezione anche considerando che non è sempre possibile per una donna durante il travaglio indossare la mascherina in ogni momento.

Per quanto riguarda le persone che arrivano già con un tampone positivo?

Sono delle procedure che stiamo mettendo a punto giorno dopo giorno: è una situazione che negli ultimi mesi cambia veramente con una velocità impressionante quindi a volte le cose cambiano anche da un giorno all’altro. In questo momento si cerca di sapere già lo stato immunologico rispetto al covid della donna e quindi di realizzare un percorso adatto. Chi ha un tampone positivo verrà ovviamente ammesso in una situazione in cui può essere isolato: se si tratta di una visita, per esempio della visita di presa in carico a termine di gravidanza, si cercherà di prevederla e realizzarla in una stanza separata rispetto al resto del reparto. Se invece la donna positiva è già in travaglio o ha già partorito verrà messo in una stanza isolata dove passerà tutto il periodo di ricovero, che in un parto fisiologico è di 48 ore.

Che cosa cambia nella gestione dei neonati nel caso di donne positive?

Se la mamma è positiva al covid, le raccomandazioni dell’organizzazione Mondiale della sanità dicono che può comunque stare con il suo bambino e allattarlo, anzi: allattarlo è un misura di protezione per la salute del bambino. Si raccomanda di utilizzare la mascherina quando interagisce con il bambino, quindi anche nel momento in cui lo allatta. Non ci sono particolari controlli relativi al Covid fatti al bambino tranne un tampone, ovviamente non nasofaringeo ma orofaringeo. Poi anche il bambino verrà preso in carico dall’igiene pubblica per lo screening, quindi farà un altro tampone a sette giorni di vita. Il bimbo viene visitato, come tutti i bambini nati in ospedale, appena nato e prima della dimissione o più frequentemente in presenza di indicazioni. Viene garantito il rooming-in, cioè la permanenza del bambino con la mamma sempre in isolamento dentro la stanza e tutte le visite e i controlli vengono fatti nella stanza della mamma. È una situazione che chiaramente può essere un po’ pesante per chi deve stare 48 ore chiuso in una stanza, però in questo momento è l’unico modo di realizzare l’isolamento.

Nel caso in cui il parto sia andato bene, la mamma sta bene e il bambino sta bene, si possono chiedere le dimissioni anticipate?

Normalmente il ricovero di un parto naturale dura 48 ore: è il tempo in cui la mamma e il bambino si conoscono, il rooming-in permette di avviare l’allattamento e di avere un supporto un po’ più intensivo per quei primi momenti delicati. Il bambino a 48 ore deve eseguire lo screening delle malattie metaboliche obbligatorio per legge e questo ricovero permette al genitore di non dover ritornare in ospedale per lo screening in un momento del genere dove ogni accesso in ospedale è abbastanza complesso. In una situazione di positività al covid, a maggior ragione, si tende ad evitare un ritorno a domicilio per poi far tornare le persone in ospedale perché la quarantena non permette spostamenti in libertà. Infatti la mamma risultata positiva al covid, al momento delle dimissioni, ritorna a casa con il suo bambino accompagnata dal servizio di ambulanza. Penso che questo periodo ci possa dare l’occasione per pensare ad un modo diverso di assistere: in questa zona, ad esempio, lo screening per le malattie metaboliche viene realizzato in ospedale, ma potrebbe benissimo essere realizzato a domicilio, cosa che peraltro avviene se si partorisce in casa. Tutto dipende da come è organizzata l’assistenza a livello ospedaliero e territoriale e che integrazioni hanno questi due servizi.

Prima del Covid l’uscita prima delle 48 ore era possibile?

All’inizio della pandemia, all’inizio del lockdown era addirittura consigliato. In quel momento ancora non veniva fatto uno screening dello stato immunologico delle donne quindi di fatto non si sapeva chi fosse positivo al virus e chi no. In quel momento veniva consigliato di rimanere in ospedale meno rispetto alle 48 ore per evitare proprio la permanenza in un luogo dove si sapeva che era più probabile infettarsi o perlomeno avere contatti con questo virus. Purtroppo, ripeto, il problema è anche gestionale in questi giorni perché è veramente complesso per tutti quelli che lavorano in ospedale organizzare gli spostamenti, isolamenti e la gestione di persone positive e non. Ovviamente non è una non volontà, ma è davvero complicato e un grande carico di lavoro per chi deve comunque fornire assistenza a tutte le altre persone, pensare anche a dei percorsi specifici. Si fa quello che è possibile con le risorse disponibili in questo momento consapevoli che questo non sia la soluzione ideale. Comunque sì: è possibile chiedere al personale di reparto la dimissione anticipata e anche, al contrario, di rimanere un giorno in più, ad esempio per avere un supporto professionale per avviare l’allattamento serenamente.

Fin qui abbiamo parlato di come diventare mamme al tempo del COvid. E i papà in tutto questo?

I papà sono le grandi vittime di questa pandemia nell’ambito della nascita, perché sono stati esclusi senza essere interpellati, esclusi a tavolino da questo momento molto importante per la famiglia che nasce. Dall’inizio del lockdown sono stati ammessi solo durante il momento del travaglio attivo e per le due ore dopo la nascita del bambino, quindi nel periodo in cui la donna è nella sala parto. Non sono stati ammessi in reparto per due, tre mesi. È stato molto strano vedere i papà prendere in braccio i loro bambini per la prima volta dopo due giorni.. è stato veramente forte per noi ostetriche che siamo sempre state abituate a vedere il processo di conoscenza graduale anche dei padri con i loro figli e ad accompagnare questa conoscenza.

Da qualche tempo i padri sono ammessi in reparto per una visita di due ore al giorno, con orari dilazionati per evitare assembramenti nelle stanze di degenza. Le visite sono possibili sia prima del travaglio attivo (periodo che talvolta può essere molto lungo, come nel caso delle induzioni programmate) sia nei due/tre giorni di puerperio. Due ore al giorno per una donna che ha appena partorito non è molto, è veramente niente.

Da qualche settimana vengono screenati per il coronavirus anche i padri. Il tampone degli accompagnatori, questa è una politica aziendale non solo del nostro reparto, ha durata di 30 giorni. Quindi il loro referto può essere anche più vecchio di tre giorni e si attuano tutte le misure che sono previste dall’igiene pubblica per l’accesso in ospedale.

Possono entrare anche i papà che sono risultati positivi?

Questa cosa ancora non è successa, ma verosimilmente capiterà. Dovremo mettere a punto un percorso idoneo per permettere l’isolamento della triade. Ogni nuovo elemento di questa complessa organizzazione ci stimola a cercare dei modi per integrare queste nuove richieste all’assistenza che fornivamo prima e non è facile.

È consigliabile quindi organizzarsi prima per non doverlo fare in travaglio o perlomeno il tampone dei padri visto che è valido per trenta giorni?

Devono farlo prima, nel senso che vengono invitati dall’ospedale stesso a effettuare il tampone negli ambulatori dedicati allo screening. La donna che è a termine di gravidanza viene chiamata ad eseguire il tampone qualche giorno prima della presa in carico, cioè del momento in cui si compila la cartella clinica che poi servirà per il ricovero del parto. Anche i partner lo eseguiranno più o meno due settimane prima della data presunta del parto in modo da avere un tampone in corso di validità per il momento del parto. Purtroppo le donne nel 90% dei casi devono eseguire più tamponi prima del parto, a volte anche durante il travaglio attivo.

Consiglieresti il parto in casa in questo momento?

Come ostetrica personalmente mi sento di consigliare di pensare alla nascita del proprio figlio, di pensare a che cosa si sente di aver bisogno per una nascita serena. La scelta del luogo del parto è questo per me: è riflettere non solo razionalmente, ma cercare proprio di sentire a livello emotivo, a livello anche fisico quale alternativa ci permette di essere più in connessione con noi stesse e tranquille e serene. In questo momento nascere in ospedale è diverso, è diverso da quello che era 6 mesi fa, molto diverso. Bisogna cercare di immaginarsi due, tre giorni, il tempo che può durare un travaglio, di solitudine, perché purtroppo, anche se non è quello che noi operatori della nascita vorremmo, questa è la situazione in questo momento. Quindi io raccomanderei di pensare a quello che vuol dire per ognuno stare tre giorni senza contatti sociali: per qualcuno questo è tollerabile, per qualcuno meno. Esiste in questa zona la possibilità di partorire a domicilio e forse in questo momento è un’opzione che tante donne, che prima non ci avrebbero pensato, stanno valutando, ma è importante che sia una scelta davvero sentita. Ripeto: deve essere una scelta che permette alla donna e alla sua famiglia di essere serene.

Parli di queste 48 ore come fosse una tortura, mentre in alcune culture la madre si isola per partorire da sola o vive un periodo di isolamento nel primo dopo parto. Facendo di necessità virtù, potrebbe essere un’occasione per riscoprire la potenza femminile e rafforzare il proprio legame con il neonato, legame che già esiste privatamente fra madre e figlio mentre quest’ultimo è ancora nella pancia.

Potrebbe esserlo, certamente, ma solo se preceduta da un percorso di preparazione e consapevolezza. Altrimenti rischia di generare frustrazione e impotenza. In generale comunque credo che la solitudine e l’isolamento non siano mai salutari per una donna che deve partorire e ancora meno per una che ha appena partorito.

Certo è difficile improvvisare non essendo parte della nostra cultura: bisogna essere accompagnate e rieducate per riscoprire la potenza generatrice delle donne

Si, sicuramente questa è una grande sfida che la pandemia ha offerto a tutte noi ostetriche, dalle colleghe che seguono le donne durante la gravidanza fino a noi che le accogliamo per il momento della nascita.

Hai notato dei cambiamenti riguardo lo svolgimento del parto, ad esempio travagli più lunghi o più frequenza di cesarei?

Questa è una bellissima domanda. Sì. Sì e in maniera molto netta. È ovvio che le osservazioni personali non costituiscono una prova statistica, ma io penso che anche a livello epidemiologico emergerà un peggioramento degli esiti del parto in questo periodo. Penso che giochino tanti fattori, sicuramente la paura: la paura è uno dei problemi più grandi in questo periodo, perché la paura è un grande ostacolo alla fisiologia ormonale emotiva del parto. La solitudine è un altro grande problema. Tutte queste emozioni e queste situazioni legate al contenimento della pandemia creano uno stato d’animo di allerta, mentre il parto, il travaglio richiedono affidamento e fiducia. Si stanno osservando dei travagli più lunghi e degli esiti leggermente peggiori. Questo non è per spaventare nessuno, penso che sia inevitabile in un momento del genere.

Probabilmente, al di là delle procedure di ricovero dell’ospedale, le donne arrivano già più in ansia rispetto a prima

Penso che il livello di ansia di tutta la popolazione si sia alzato e sia aumentato in questo periodo. In gravidanza una donna è doppiamente preoccupata perché non deve pensare solo a sé, ma anche al bambino, a un’altra persona che è dentro di lei e questo secondo me non le permette di essere completamente tranquilla in questo grande momento di incertezza. Questo momento poi ci pone delle sfide anche dal punto di vista della libertà delle decisioni dei genitori rispetto alla nascita del loro figlio e all’assistenza cui si va incontro. Molte scelte in questo momento sono obbligate, c’è molta meno libertà di decisione, perché non si può più scegliere chi sosterrà la madre durante il travaglio, non si può più scegliere per quanto tempo e come avrà questo tipo di supporto, le scelte riguardo le dimissioni sono quasi sempre obbligate e questo è sicuramente un peggioramento rispetto all’assistenza alla nascita che noi operatori vorremmo fornire.

L’accompagnamento da un’ostetrica esterna è ancora possibile?

La linea comune degli ospedali è di ammettere un solo accompagnatore per ogni ricoverata, cercando di fare in modo che sia sempre quella persona ad accedere al reparto. Va da sé che questa persona sia quasi sempre il padre del bambino, o comunque un membro della famiglia. Se la donna scegliesse di essere accompagnata dall’ostetrica, poi il padre del bambino non potrebbe assistere al parto. Quindi quasi sempre se la donna ha un’ostetrica privata che la segue a domicilio, dal momento in cui entra in ospedale la deve lasciare. Anche questo sicuramente non fa bene alla coppia e alla triade che nasce.

In alcune situazioni di particolare bisogno durante il ricovero dopo la nascita, pensiamo ad esempio ad un taglio cesareo, un intervento un po’ più complicato o una perdita di sangue importante che richiedono un’assistenza più intensiva, in questi casi si permette alla persona di sostegno di restare accanto alla compagna o la figlia. Questo è qualcosa che abbiamo deciso a livello interno nel nostro reparto per permettere a chi ha bisogno di assistenza costante di sentirsi meno sola e di riuscire a riprendersi nella maniera migliore. In questo momento per le ostetriche e per tutti gli operatori il carico di lavoro è grande, è molto aumentato rispetto al passato e quindi ancora di più chi ha bisogno di un’assistenza più continuativa, più costante ha diritto ad avere una persona con sé.

Di cosa avrebbero bisogno le ostetriche in questo momento?

Avremmo bisogno di più ostetriche. La risposta è molto semplice: avremmo bisogno di più personale. Tante volte assistere, sorvegliare gli isola menti e gli spostamenti è un grande impegno di tempo e di energie. Dover fare tutto il lavoro che abbiamo sempre fatto e anche questo nello stesso tempo non è veramente pensabile quindi a lungo andare penso che questo possa peggiorare di molto la situazione psicologica anche del personale e quindi la capacità di lavorare serenamente. Alleggerendo un po’ il carico di lavoro si riuscirebbe a fornire un’assistenza più di qualità o comunque riavvicinarsi agli standard che il nostro reparto aveva in precedenza e lavorare, per quanto possibile, serenamente.

Esiste un servizio di supporto psicologico per il personale?

Al bisogno sì. Tutti i dipendenti dell’azienda possono richiederlo, così come le madri durante il periodo di ricovero. Io personalmente non ne ho mai fatto richiesta, però è sempre stato disponibile anche a distanza durante il periodo del lockdown.

Come mai non ti è mai capitato di farne richiesta?

Forse ho avuto la speranza che questa situazione si risolvesse. In questo momento mi trovo molto in difficoltà perché mi rendo conto che come ostetrica dovrò fare i conti con questo status quo per parecchio tempo. Cerco di fare rete con le colleghe, di cercare di capire come affrontare questa situazione al meglio però non escludo il confronto con qualche professionista. Credo sia importante che anche noi operatori ci tuteliamo dal punto di vista della nostra salute sia fisica che psicologica. È stata una messa alla prova lunga mesi e dovrà durare ancora molto, quindi ora più che mai mi rendo conto che è importante che noi operatori preveniamo un burnout o qualche altro tipo di reazione che ci faccia stare ancora peggio e non ci permetta di lavorare bene.

Com’è strutturato il sostegno psicologico? È individuale o per gruppi?

Un tipo di supervisione strutturata non l’abbiamo mai avuta da parte di uno psicoterapeuta. Questa è una grande pecca secondo me. Il supporto psicologico è una richiesta individuale, però effettivamente in questo momento la cosa più indicata sarebbe una supervisione di gruppo.

Il fatto che lo psicoterapeuta sia interno all’ASL è un ostacolo o è un valore aggiunto?

Lo psicoterapeuta dell’ASL comunque non è parte della nostra equipe in senso stretto, quindi penso che potrebbe avere un ruolo importante mantenendo comunque l’indipendenza. Ci potrebbe servire molto guardare i nostri percorsi dall’esterno, cosa che invece tra di noi è più difficile da fare perché siamo molto immerse nel nostro lavoro, nei nostri problemi quotidiani. Facciamo fatica a fare un discorso che vada oltre le nostre regole. Sicuramente c’è bisogno di qualcuno di esterno, porterebbe sempre dei benefici alla nostra riflessione.

Un ultimo messaggio che vuoi lasciare alle donne in dolce attesa che diventeranno mamme al tempo del Covid, o a quelle che hanno da poco partorito?

Care madri, abbiate fiducia in voi stesse, nei vostri bambini e nelle vostre ostetriche e potremo insieme affrontare l’ansia e la paura. A presto!

14/11/2020

Spazio al rito

Oggi è il giorno di Halloween, festa che deriva probabilmente dalla festa Celtica Samhain che significa qualcosa come “fine dell’estate”, scelta poi per continuità della Chiesa Cattolica come festa di Ognissanti.

Come dice la parola stessa, la festa Celtica rappresentava la chiusura dell’estate e voleva essere di buon auspicio per l’inverno rigido che ai tempi rappresentava una vera e propria sfida per la vita. Inoltre si pensava che in questo giorno, che non apparteneva né all’anno vecchio né a quello nuovo, il regno dei vivi e dei morti potessero comunicare.

Samhain era una festa di rito propiziatorio insomma, dettata dalla paura della morte.

Riti diversi ne troviamo in ogni religione e ogni rito si declina in base alle tradizioni e ai valori.

Indipendentemente dal credo a cui ciascuno aderisce, ogni rito ha una funzione, non soltanto legata alla religione, ma soprattutto legata al bisogni psicologici del singolo individuo e della comunità.

Una funzione quindi concreta e reale, aldilà di ciò in cui ciascuno crede: i riti sono ponti.

I riti sono ponti che permettono alla persona di entrare in contatto con le proprie emozioni, dargli spazio, dargli espressione, dargli forma.

I riti collettivi inoltre servono per condividere le emozioni e sentire la forza dell’unione e lasciare la disperazione della solitudine.

Tornando alla festa di Samhain che coincide con il capodanno celtico, si pensava che chi fosse solo in questa notte esponesse se stesso e il suo spirito ai pericoli dei rigori invernali.

Fuor di credenza, questo era un rischio reale: dal punto di vista fisico, perché chi non aveva una rete, una comunità non aveva aiuti materiali per sopravvivere all’inverno in caso di bisogno; dal punto di vista psicologico perché si sarebbe trovato solo e senza conforto ad affrontare i pericoli della stagione fredda e la paura legata alla possibilità di non superarla.

Accendere insieme i falò, riunirsi per mangiare insieme, fare dei sacrifici non aumentava magicamente le loro possibilità di sopravvivenza che restavano comunque parzialmente fuori dal loro controllo.

Cambiava però lo spirito con cui avrebbero affrontato l’inverno, confortava la loro paura che aveva potuto trovare uno spazio di espressione e di condivisione all’interno della comunità.

Inoltre era un’occasione per celebrare, ricordare e piangere i propri cari perduti che, anche se non tornavano fisicamente dal regno dei morti, tornavano nella mente e nello spirito dei vivi che avevano bisogno di questo spazio e momento per esprimere dolore o gratitudine.

Il rito tra l’altro è caratterizzato da un fare concreto e l’attivazione del corpo è di grande aiuto per contattare le proprie emozioni.

In questi termini il rito è utile e efficace e diventa un ponte per prendersi cura di sé e degli altri.

Quest’anno sento più intensa e necessaria che mai questa festa: la morte ci aleggia intorno, a volte ci ha toccato o sfiorato molto da vicino.

I riti invece hanno subito una battuta d’arresto: molte persone infatti non aderiscono ad una religione particolare e tipicamente è proprio alla religione che viene imputato il compito di stabilire in quali occasioni e modalità istituire un rito.

Inoltre in questa pandemia ci sono stati luoghi e momenti in cui chi ha perduto un affetto, non ha potuto organizzare un funerale per un ultimo saluto, a volte non lo ha potuto nemmeno salutare di persona.

Le morti non piante, le paure che non trovano spazio per essere espresse e condivise, restano dentro di noi come pesanti macigni e rendono difficili cose semplici come dormire per citare uno dei sintomi psicologici più diffusi come effetto della pandemia.

Riprendiamo allora uno spazio spirituale come ponte per rientrare in contatto con noi stessi e le emozioni cristallizzate, anche se non abbiamo una fede religiosa: i riti sono un atto artistico e possono essere inventati, cambiati, trasformati attraverso i nostri simboli, i nostri valori e i nostri bisogni di espressione.

Dr.ssa Violetta Molteni

Per qualsiasi domanda, non esitare a contattarmi

Leggi altri articoli:

Nascere durante la pandemia

Che emozione le emozioni!

La coppia dopo la quarantena