Diventare mamme al tempo del covid

Diventare mamme al tempo del Covid

Quella che segue è l’intervista ad un’ostetrica dell’ospedale Bufalini di Cesena, che ci racconta cosa significa diventare mamme al tempo del Covid. Per riservatezza rimarrà anonima.

Ho già affrontato questo tema nell’articolo nascere durante la pandemia. Qui trovate raccolte le testimonianze dirette dell’ostetrica intervistata e le prassi attualmente in atto nel reparto di ostetricia cesenate.

Mi è sembrato un atto dovuto, in questo periodo di incertezza dove non tutto si può rimandare, il parto ad esempio. Come tutto in questo periodo, anche l’esperienza del partorire in ospedale ha subito grandi mutamenti e non sapere cosa aspettarsi è un’ulteriore fonte di stress per le mamme e i papà. Per diventare mamme al tempo del Covid, la consapevolezza è il primo passo per poter agire attivamente nel mondo. Evitare di sapere come stanno le cose, nascondere la testa sotto la sabbia non diminuirà la paura, ma solo la presa di coscienza di tale paura.

Le emozioni che non senti, sono padrone di te.

Le emozioni che ascolti, sono la bussola in un cammino che scegli.

Le informazioni raccolte non intendono essere esaustive, ma soltanto dare un quadro del momento presente. Qualsiasi riferimento in generale è comunque da ricondurre all’esperienza dell’intervistata presso l’ospedale di Cesena. In altre realtà le procedure potrebbero essere diverse.

Vi invito in ogni caso ad informarvi direttamente presso il vostro ospedale, anche vista la rapidità con cui cambiano le cose.

Nonostante non sia un percorso rose e fiori quello che incontrerà la futura mamma, dall’intervista traspare non solo l’impegno del personale, ma anche il dispiacere di non poter fare di più al tempo del Covid. Anche il personale è fatto di madri, padri, figlie, figli e anche nonne e nonni.

È in questa umanità che appartiene a tutti noi che è possibile l’incontro.

Cercate l’incontro, cercatelo nella vostra e altrui umanità.

Buona lettura

Partiamo dall’arrivo in ospedale. Cosa deve aspettarsi una donna quando arriva in ospedale al tempo del Covid?

L’accesso in ospedale avviene all’ambulatorio urgenza che è subito fuori dal reparto di ostetricia. Una donna può accedere direttamente quando ha le contrazioni o per qualsiasi altro motivo clinico. In questo momento le donne prima di essere ricoverate per il travaglio devono avere un tampone covid valido, cioè un tampone che è stato refertato entro i 3 giorni precedenti. Questo significa che, se l’hanno già eseguito e non sono passati più di tre giorni, vengono ricoverate senza doverlo ripetere. Invece chi lo ha eseguito prima dei tre giorni precedenti, lo deve ripetere al momento del ricovero. Chi è in attesa del risultato di questo tampone, che in genere richiede 12 ore, viene messo in una sorta di area filtro fino al momento della refertazione. Anche durante l’isolamento sarà possibile ricevere visita dal compagno durante gli orari di visita prestabiliti. Se il parto dovesse avvenire in questo lasso di tempo alla donna verrà garantita la presenza del compagno durante tutto il travaglio attivo e fino al parto. L’assistenza ostetrica alle donne con tampone in corso o con tampone positivo non subisce ovviamente alcuna variazione, il personale indosserà dei dispositivi di protezione individuale aggiuntivi rispetto alla sola mascherina chirurgica.

Chi ha un tampone negativo viene ricoverato, come è sempre stato, in stanza con altre donne. Ovviamente si chiede alle donne di mantenere le norme di distanziamento e indossare la mascherina in reparto durante tutto il ricovero.

Compreso il travaglio e il parto?

È chiaro che la mascherina in un momento come il travaglio è consigliata, ma non sempre tollerata quindi le ostetriche attuano delle misure di protezione anche considerando che non è sempre possibile per una donna durante il travaglio indossare la mascherina in ogni momento.

Per quanto riguarda le persone che arrivano già con un tampone positivo?

Sono delle procedure che stiamo mettendo a punto giorno dopo giorno: è una situazione che negli ultimi mesi cambia veramente con una velocità impressionante quindi a volte le cose cambiano anche da un giorno all’altro. In questo momento si cerca di sapere già lo stato immunologico rispetto al covid della donna e quindi di realizzare un percorso adatto. Chi ha un tampone positivo verrà ovviamente ammesso in una situazione in cui può essere isolato: se si tratta di una visita, per esempio della visita di presa in carico a termine di gravidanza, si cercherà di prevederla e realizzarla in una stanza separata rispetto al resto del reparto. Se invece la donna positiva è già in travaglio o ha già partorito verrà messo in una stanza isolata dove passerà tutto il periodo di ricovero, che in un parto fisiologico è di 48 ore.

Che cosa cambia nella gestione dei neonati nel caso di donne positive?

Se la mamma è positiva al covid, le raccomandazioni dell’organizzazione Mondiale della sanità dicono che può comunque stare con il suo bambino e allattarlo, anzi: allattarlo è un misura di protezione per la salute del bambino. Si raccomanda di utilizzare la mascherina quando interagisce con il bambino, quindi anche nel momento in cui lo allatta. Non ci sono particolari controlli relativi al Covid fatti al bambino tranne un tampone, ovviamente non nasofaringeo ma orofaringeo. Poi anche il bambino verrà preso in carico dall’igiene pubblica per lo screening, quindi farà un altro tampone a sette giorni di vita. Il bimbo viene visitato, come tutti i bambini nati in ospedale, appena nato e prima della dimissione o più frequentemente in presenza di indicazioni. Viene garantito il rooming-in, cioè la permanenza del bambino con la mamma sempre in isolamento dentro la stanza e tutte le visite e i controlli vengono fatti nella stanza della mamma. È una situazione che chiaramente può essere un po’ pesante per chi deve stare 48 ore chiuso in una stanza, però in questo momento è l’unico modo di realizzare l’isolamento.

Nel caso in cui il parto sia andato bene, la mamma sta bene e il bambino sta bene, si possono chiedere le dimissioni anticipate?

Normalmente il ricovero di un parto naturale dura 48 ore: è il tempo in cui la mamma e il bambino si conoscono, il rooming-in permette di avviare l’allattamento e di avere un supporto un po’ più intensivo per quei primi momenti delicati. Il bambino a 48 ore deve eseguire lo screening delle malattie metaboliche obbligatorio per legge e questo ricovero permette al genitore di non dover ritornare in ospedale per lo screening in un momento del genere dove ogni accesso in ospedale è abbastanza complesso. In una situazione di positività al covid, a maggior ragione, si tende ad evitare un ritorno a domicilio per poi far tornare le persone in ospedale perché la quarantena non permette spostamenti in libertà. Infatti la mamma risultata positiva al covid, al momento delle dimissioni, ritorna a casa con il suo bambino accompagnata dal servizio di ambulanza. Penso che questo periodo ci possa dare l’occasione per pensare ad un modo diverso di assistere: in questa zona, ad esempio, lo screening per le malattie metaboliche viene realizzato in ospedale, ma potrebbe benissimo essere realizzato a domicilio, cosa che peraltro avviene se si partorisce in casa. Tutto dipende da come è organizzata l’assistenza a livello ospedaliero e territoriale e che integrazioni hanno questi due servizi.

Prima del Covid l’uscita prima delle 48 ore era possibile?

All’inizio della pandemia, all’inizio del lockdown era addirittura consigliato. In quel momento ancora non veniva fatto uno screening dello stato immunologico delle donne quindi di fatto non si sapeva chi fosse positivo al virus e chi no. In quel momento veniva consigliato di rimanere in ospedale meno rispetto alle 48 ore per evitare proprio la permanenza in un luogo dove si sapeva che era più probabile infettarsi o perlomeno avere contatti con questo virus. Purtroppo, ripeto, il problema è anche gestionale in questi giorni perché è veramente complesso per tutti quelli che lavorano in ospedale organizzare gli spostamenti, isolamenti e la gestione di persone positive e non. Ovviamente non è una non volontà, ma è davvero complicato e un grande carico di lavoro per chi deve comunque fornire assistenza a tutte le altre persone, pensare anche a dei percorsi specifici. Si fa quello che è possibile con le risorse disponibili in questo momento consapevoli che questo non sia la soluzione ideale. Comunque sì: è possibile chiedere al personale di reparto la dimissione anticipata e anche, al contrario, di rimanere un giorno in più, ad esempio per avere un supporto professionale per avviare l’allattamento serenamente.

Fin qui abbiamo parlato di come diventare mamme al tempo del COvid. E i papà in tutto questo?

I papà sono le grandi vittime di questa pandemia nell’ambito della nascita, perché sono stati esclusi senza essere interpellati, esclusi a tavolino da questo momento molto importante per la famiglia che nasce. Dall’inizio del lockdown sono stati ammessi solo durante il momento del travaglio attivo e per le due ore dopo la nascita del bambino, quindi nel periodo in cui la donna è nella sala parto. Non sono stati ammessi in reparto per due, tre mesi. È stato molto strano vedere i papà prendere in braccio i loro bambini per la prima volta dopo due giorni.. è stato veramente forte per noi ostetriche che siamo sempre state abituate a vedere il processo di conoscenza graduale anche dei padri con i loro figli e ad accompagnare questa conoscenza.

Da qualche tempo i padri sono ammessi in reparto per una visita di due ore al giorno, con orari dilazionati per evitare assembramenti nelle stanze di degenza. Le visite sono possibili sia prima del travaglio attivo (periodo che talvolta può essere molto lungo, come nel caso delle induzioni programmate) sia nei due/tre giorni di puerperio. Due ore al giorno per una donna che ha appena partorito non è molto, è veramente niente.

Da qualche settimana vengono screenati per il coronavirus anche i padri. Il tampone degli accompagnatori, questa è una politica aziendale non solo del nostro reparto, ha durata di 30 giorni. Quindi il loro referto può essere anche più vecchio di tre giorni e si attuano tutte le misure che sono previste dall’igiene pubblica per l’accesso in ospedale.

Possono entrare anche i papà che sono risultati positivi?

Questa cosa ancora non è successa, ma verosimilmente capiterà. Dovremo mettere a punto un percorso idoneo per permettere l’isolamento della triade. Ogni nuovo elemento di questa complessa organizzazione ci stimola a cercare dei modi per integrare queste nuove richieste all’assistenza che fornivamo prima e non è facile.

È consigliabile quindi organizzarsi prima per non doverlo fare in travaglio o perlomeno il tampone dei padri visto che è valido per trenta giorni?

Devono farlo prima, nel senso che vengono invitati dall’ospedale stesso a effettuare il tampone negli ambulatori dedicati allo screening. La donna che è a termine di gravidanza viene chiamata ad eseguire il tampone qualche giorno prima della presa in carico, cioè del momento in cui si compila la cartella clinica che poi servirà per il ricovero del parto. Anche i partner lo eseguiranno più o meno due settimane prima della data presunta del parto in modo da avere un tampone in corso di validità per il momento del parto. Purtroppo le donne nel 90% dei casi devono eseguire più tamponi prima del parto, a volte anche durante il travaglio attivo.

Consiglieresti il parto in casa in questo momento?

Come ostetrica personalmente mi sento di consigliare di pensare alla nascita del proprio figlio, di pensare a che cosa si sente di aver bisogno per una nascita serena. La scelta del luogo del parto è questo per me: è riflettere non solo razionalmente, ma cercare proprio di sentire a livello emotivo, a livello anche fisico quale alternativa ci permette di essere più in connessione con noi stesse e tranquille e serene. In questo momento nascere in ospedale è diverso, è diverso da quello che era 6 mesi fa, molto diverso. Bisogna cercare di immaginarsi due, tre giorni, il tempo che può durare un travaglio, di solitudine, perché purtroppo, anche se non è quello che noi operatori della nascita vorremmo, questa è la situazione in questo momento. Quindi io raccomanderei di pensare a quello che vuol dire per ognuno stare tre giorni senza contatti sociali: per qualcuno questo è tollerabile, per qualcuno meno. Esiste in questa zona la possibilità di partorire a domicilio e forse in questo momento è un’opzione che tante donne, che prima non ci avrebbero pensato, stanno valutando, ma è importante che sia una scelta davvero sentita. Ripeto: deve essere una scelta che permette alla donna e alla sua famiglia di essere serene.

Parli di queste 48 ore come fosse una tortura, mentre in alcune culture la madre si isola per partorire da sola o vive un periodo di isolamento nel primo dopo parto. Facendo di necessità virtù, potrebbe essere un’occasione per riscoprire la potenza femminile e rafforzare il proprio legame con il neonato, legame che già esiste privatamente fra madre e figlio mentre quest’ultimo è ancora nella pancia.

Potrebbe esserlo, certamente, ma solo se preceduta da un percorso di preparazione e consapevolezza. Altrimenti rischia di generare frustrazione e impotenza. In generale comunque credo che la solitudine e l’isolamento non siano mai salutari per una donna che deve partorire e ancora meno per una che ha appena partorito.

Certo è difficile improvvisare non essendo parte della nostra cultura: bisogna essere accompagnate e rieducate per riscoprire la potenza generatrice delle donne

Si, sicuramente questa è una grande sfida che la pandemia ha offerto a tutte noi ostetriche, dalle colleghe che seguono le donne durante la gravidanza fino a noi che le accogliamo per il momento della nascita.

Hai notato dei cambiamenti riguardo lo svolgimento del parto, ad esempio travagli più lunghi o più frequenza di cesarei?

Questa è una bellissima domanda. Sì. Sì e in maniera molto netta. È ovvio che le osservazioni personali non costituiscono una prova statistica, ma io penso che anche a livello epidemiologico emergerà un peggioramento degli esiti del parto in questo periodo. Penso che giochino tanti fattori, sicuramente la paura: la paura è uno dei problemi più grandi in questo periodo, perché la paura è un grande ostacolo alla fisiologia ormonale emotiva del parto. La solitudine è un altro grande problema. Tutte queste emozioni e queste situazioni legate al contenimento della pandemia creano uno stato d’animo di allerta, mentre il parto, il travaglio richiedono affidamento e fiducia. Si stanno osservando dei travagli più lunghi e degli esiti leggermente peggiori. Questo non è per spaventare nessuno, penso che sia inevitabile in un momento del genere.

Probabilmente, al di là delle procedure di ricovero dell’ospedale, le donne arrivano già più in ansia rispetto a prima

Penso che il livello di ansia di tutta la popolazione si sia alzato e sia aumentato in questo periodo. In gravidanza una donna è doppiamente preoccupata perché non deve pensare solo a sé, ma anche al bambino, a un’altra persona che è dentro di lei e questo secondo me non le permette di essere completamente tranquilla in questo grande momento di incertezza. Questo momento poi ci pone delle sfide anche dal punto di vista della libertà delle decisioni dei genitori rispetto alla nascita del loro figlio e all’assistenza cui si va incontro. Molte scelte in questo momento sono obbligate, c’è molta meno libertà di decisione, perché non si può più scegliere chi sosterrà la madre durante il travaglio, non si può più scegliere per quanto tempo e come avrà questo tipo di supporto, le scelte riguardo le dimissioni sono quasi sempre obbligate e questo è sicuramente un peggioramento rispetto all’assistenza alla nascita che noi operatori vorremmo fornire.

L’accompagnamento da un’ostetrica esterna è ancora possibile?

La linea comune degli ospedali è di ammettere un solo accompagnatore per ogni ricoverata, cercando di fare in modo che sia sempre quella persona ad accedere al reparto. Va da sé che questa persona sia quasi sempre il padre del bambino, o comunque un membro della famiglia. Se la donna scegliesse di essere accompagnata dall’ostetrica, poi il padre del bambino non potrebbe assistere al parto. Quindi quasi sempre se la donna ha un’ostetrica privata che la segue a domicilio, dal momento in cui entra in ospedale la deve lasciare. Anche questo sicuramente non fa bene alla coppia e alla triade che nasce.

In alcune situazioni di particolare bisogno durante il ricovero dopo la nascita, pensiamo ad esempio ad un taglio cesareo, un intervento un po’ più complicato o una perdita di sangue importante che richiedono un’assistenza più intensiva, in questi casi si permette alla persona di sostegno di restare accanto alla compagna o la figlia. Questo è qualcosa che abbiamo deciso a livello interno nel nostro reparto per permettere a chi ha bisogno di assistenza costante di sentirsi meno sola e di riuscire a riprendersi nella maniera migliore. In questo momento per le ostetriche e per tutti gli operatori il carico di lavoro è grande, è molto aumentato rispetto al passato e quindi ancora di più chi ha bisogno di un’assistenza più continuativa, più costante ha diritto ad avere una persona con sé.

Di cosa avrebbero bisogno le ostetriche in questo momento?

Avremmo bisogno di più ostetriche. La risposta è molto semplice: avremmo bisogno di più personale. Tante volte assistere, sorvegliare gli isola menti e gli spostamenti è un grande impegno di tempo e di energie. Dover fare tutto il lavoro che abbiamo sempre fatto e anche questo nello stesso tempo non è veramente pensabile quindi a lungo andare penso che questo possa peggiorare di molto la situazione psicologica anche del personale e quindi la capacità di lavorare serenamente. Alleggerendo un po’ il carico di lavoro si riuscirebbe a fornire un’assistenza più di qualità o comunque riavvicinarsi agli standard che il nostro reparto aveva in precedenza e lavorare, per quanto possibile, serenamente.

Esiste un servizio di supporto psicologico per il personale?

Al bisogno sì. Tutti i dipendenti dell’azienda possono richiederlo, così come le madri durante il periodo di ricovero. Io personalmente non ne ho mai fatto richiesta, però è sempre stato disponibile anche a distanza durante il periodo del lockdown.

Come mai non ti è mai capitato di farne richiesta?

Forse ho avuto la speranza che questa situazione si risolvesse. In questo momento mi trovo molto in difficoltà perché mi rendo conto che come ostetrica dovrò fare i conti con questo status quo per parecchio tempo. Cerco di fare rete con le colleghe, di cercare di capire come affrontare questa situazione al meglio però non escludo il confronto con qualche professionista. Credo sia importante che anche noi operatori ci tuteliamo dal punto di vista della nostra salute sia fisica che psicologica. È stata una messa alla prova lunga mesi e dovrà durare ancora molto, quindi ora più che mai mi rendo conto che è importante che noi operatori preveniamo un burnout o qualche altro tipo di reazione che ci faccia stare ancora peggio e non ci permetta di lavorare bene.

Com’è strutturato il sostegno psicologico? È individuale o per gruppi?

Un tipo di supervisione strutturata non l’abbiamo mai avuta da parte di uno psicoterapeuta. Questa è una grande pecca secondo me. Il supporto psicologico è una richiesta individuale, però effettivamente in questo momento la cosa più indicata sarebbe una supervisione di gruppo.

Il fatto che lo psicoterapeuta sia interno all’ASL è un ostacolo o è un valore aggiunto?

Lo psicoterapeuta dell’ASL comunque non è parte della nostra equipe in senso stretto, quindi penso che potrebbe avere un ruolo importante mantenendo comunque l’indipendenza. Ci potrebbe servire molto guardare i nostri percorsi dall’esterno, cosa che invece tra di noi è più difficile da fare perché siamo molto immerse nel nostro lavoro, nei nostri problemi quotidiani. Facciamo fatica a fare un discorso che vada oltre le nostre regole. Sicuramente c’è bisogno di qualcuno di esterno, porterebbe sempre dei benefici alla nostra riflessione.

Un ultimo messaggio che vuoi lasciare alle donne in dolce attesa che diventeranno mamme al tempo del Covid, o a quelle che hanno da poco partorito?

Care madri, abbiate fiducia in voi stesse, nei vostri bambini e nelle vostre ostetriche e potremo insieme affrontare l’ansia e la paura. A presto!

14/11/2020

PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICOANALISTA O PSICHIATRA?

In questi giorni sui social gira una campagna per superare lo stereotipo secondo cui dallo psicologo ci vanno solo i matti.

Già la parola “matti” apre un mondo, ma lasciamolo da parte per ora.

L’iniziativa sui social dice “io vado dallo psicologo”

Chi è lo psicologo?

Non è che forse “io vado dallo psicoterapeuta”?

E che differenza c’è tra uno psicologo e uno psichiatra?

Chiaramoci un po’ le idee

Quale differenza c’è fra uno psicologo, uno psichiatra, uno piscoterapeuta? e lo psicoanalista?

La prima differenza sostanziale è il percorso di studi, la seconda è il suo ambito di lavoro.

PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA PSICOANALISTA PSICHIATRA
PERCORSO DI STUDI 5 ANNI facoltà di psicologia+ un anno di praticantato+ esame di abilitazione Ha seguito la formazione per essere psicologo oppure medico di base, poi si è specializzato in psicoterapia: 4 anni di scuola di specializzazione e praticantato (la maggior parte delle scuole di psicoterapia prevedono un percorso di psicoterapia personale per lo specializzando) È uno psicoterapeuta.

La psicoanalisi classica è solo uno dei tanti indirizzi di specializzazione, è famosa perché è quella proposta da Freud.

Ha seguito una formazione medica (5 anni) e poi si è specializzato in psichiatria (4 anni).
COSA PUÓ FARE -effettuare colloqui di sostegno

-somministrare test

-attuare consulenze diagnostiche e psicologiche

-se riscontra un disturbo psicologico non può fare terapia, ma deve inviare ad uno psicoterapeuta

-non può somministrare farmaci

-curare di disturbi psicopatologici della psiche umana di natura ed entità diversa, che vanno da forme di modesto disagio personale alla sintomatologia grave

-promuovere la crescita e la consapevolezza personale anche in assenza di sintomi

-può somministrare farmaci solo se è medico

Vedi psicoterapeuta trattare i disturbi mentali da un punto di vista medico, considerando il funzionamento o non funzionamento del sistema nervoso in senso biochimico e attraverso la prescrizione di psicofarmaci
A CHI MI RIVOLGO? Se sento il bisogno di un sostegno psicologico in un momento particolare della vita come può essere una gravidanza, un cambio di lavoro, un lutto, la persona indicata è lo psicologo.

Se voglio migliorare la mia qualità della vita e intervenire in modo radicale nelle mie modalità di entrare in relazione con gli altri e di affrontare gli eventi della vita, mi devo rivolgere ad uno psicoterapeuta.

Se invece siamo in presenza di un sintomo specifico, va innanzitutto esclusa una base organica e questo lo può fare il medico di base o il pediatra se si tratta di bambini.

Se il disturbo non ha una causa organica, ci si può rivolgere ad uno psicologo che può fare una valutazione per stabilire se è sufficiente un consulto o se è necessaria una psicoterapia o un intervento psichiatrico.

In generale il medico di base suggerisce già una psicoterapia o un intervento psichiatrico.

È bene sapere che la somministrazione di farmaci per disturbi psicologici  (cosa che i medici di base possono fare da un punto di vista legale) senza essere accompagnata da una psicoterapia personale può essere controproducente.

In caso di patologie gravi lo psicoterapeuta e il medico di base o lo psichiatra dovrebbero collaborare per la buona riuscita della terapia.

Sapevi che esiste un albo degli psicologi?

Questo è il link dell’ordine dell’Emilia Romagna dove puoi cercare il professionista che t’interessa, scoprire se è psicologo o anche psicoterapeuta e quale indirizzo segue: ricerca iscritti albo

Vuoi avere altre informazioni sull’ambito di intervento dello psicologo? Aree professionali psicologo

IL PARTO E LE SUGGESTIONI D’ORIENTE

Le donne partoriscono dall’alba dei tempi in ogni angolo della terra. Da un punto di vista fisico e biologico il parto è identico in ogni luogo, ma ogni cultura ha costruito intorno a questo evento un rituale diverso.

Nella nostra società occidentale la consuetudine è quella di recarsi in ospedale, in case di maternità o partorire in casa propria con il supporto di due ostetriche come sancisce la legge italiana.

Questo è quello che ci si aspetta e ci si immagina del parto qui, ma come viene vissuto in altri paesi? Quali suggestioni possiamo fare nostre curiosando in altre culture?

Se volgiamo lo sguardo ad oriente troviamo la danza del ventre. Questa veniva praticata durante il parto, infatti facilita la discesa del bambino, allevia i dolori delle contrazioni, porta l’ascolto sul corpo e aumenta la consapevolezza delle parti del corpo legate al parto. Ovviamente la consapevolezza di tali parti del corpo è maggiore quanto è maggiore l’esperienza di danza della donna. La danza del ventre ha una serie di benefici muscolari durante ma anche dopo il travaglio, per riportare tonicità ad esempio al pavimento pelvico.

La cosa particolare e interessante della danza del ventre è che in origine non era soltanto la partoriente a danzare: le donne danzavano intorno a lei, suggerendole i movimenti, invitandola a danzare e accompagnandola con il suono ritmico della cintura cha avevano legato sui fianchi. La partoriente non era lasciata sola, al contrario era contenuta da una rete relazionale, da una presenza forte che mandava messaggi didsc_0318 solidarietà e di cura attraverso la danza. Quindi non consigli verbali, razionali, ma suggestioni simboliche, senza parole. La partoriente poteva così guardare le altre donne alla ricerca di suggerimenti e scegliere quelli più interessanti per lei, oppure poteva rimanere concentrata su di sé senza essere disturbata da parole invadenti, senza sentirsi in ogni caso abbandonata perché il suono delle cinture delle sue colleghe restava una presenza costante e rispettosa.

Nonostante la danza del ventre sia spesso suggerita nei corsi preparto, la potenza che può avere un gruppo come sostegno in questo difficile passaggio si è persa nel tragitto da oriente a occidente.

Anche il suono prodotto dalle cinture non è irrilevante: da un lato, ascoltare un suono ritmico aiuta a scivolare in uno stato ipnotico (vedi Il parto e lo stato alterato della mente); dall’altro, la paura di lasciarsi andare e abbandonarsi totalmente all’istinto, la paura di abbandonarsi ed entrare in trance può affievolirsi grazie alla presenza di un gruppo di altre donne, alcune testimoni dello stesso viaggio, che producono con i loro movimenti un suono che c’è prima, durante e dopo il viaggio. Come una sorta di continuità della realtà e di possibilità di ritorno.

Sempre in oriente, dopo la danza troviamo un canto: il canto carnatico che, già negli anni 60, il ginecologo francese Frédérick Leboyer suggerì di utilizzare durante il parto.

Si tratta di un canto tradizionale indiano utilizzato per facilitare la presa di coscienza di se stessi attraverso il respiro e il suono e per stimolare la meditazione. Il canto carnatico prevede dei vocalizzi durante l’espirazione: si inizia con una “m”, si prosegue con le vocali e si conclude il ciclo di nuovo con una “m” (per questo viene anche chiamato canto delle vocali). Nella tradizione indù è previsto anche uno strumento musicale, solitamente una tampura o un tamburo che scandisce il tempo. Oltre a favorire la concentrazione e la meditazione, si ritiene che l’apertura della gola influenzi l’apertura della vagina e faciliti quindi il parto.

Sia la danza che il canto hanno in comune una caratteristica: non sono elementi razionali, logici bensì sono espressioni corporee, emotive. Accompagnano la donna, la rassicurano adattandosi al suo stile, al suo carattere e alla sua esperienza attuale senza imporsi in un modo rigido.

Cantate e ballate signore mie: sta iniziando un viaggio!

Dr.ssa Violetta Molteni

QUALI STRUMENTI PER UN PARTO SERENO?

 

Quando si avvicina la data presunta del parto, spesso ci si sente insicure, con un misto fra paura e desiderio che il momento arrivi presto. Il corso pre-parto è finito, eppure ci sembra di essere disarmate come prima. Se da un lato è normale temere qualcosa di sconosciuto e così carico di emozione, è altrettanto scontato desiderare di giungere a tale data il più preparate possibile.

Quali sono allora le armi che abbiamo e possiamo utilizzare davvero durante il parto?

Fra i vari strumenti che possono essere di accompagnamento durante il viaggio del partorire ci sono sicuramente la musica, il respiro e la propria voce.

La musica è utile perché favorisce il rilassamento, ma non solo: alcune frequenze aiutano ad entrare in uno stato ipnotico (per approfondire leggi IL PARTO E LO STATO ALTERATO DELLA MENTE). Ne sono un esempio i ritmi pulsanti dei tamburi che gli sciamani utilizzano per entrare in trance. Organizzatevi con mezzi vostri (gli ospedali non sempre ne sono forniti) per poter ascoltare durante il travaglio e in sala parto una musica che vi piace, o ancor meglio una musica ricca di tamburi.

Concentrarsi sul respiro, invece, è un11849866_888690404544971_2079133398_n buon modo per entrare in contatto con il qui ed ora e già questo aiuta a sfumare tutte le paure non contingenti, legate a fantasie e racconti. Cosa vuol dire questo? Le paure che sono nate ascoltando i racconti di parti tremendi (racconti spesso esagerati e a dir poco inverosimili), oppure l’idea spaventosa che noi abbiamo del parto, affievoliscono se si ascolta e ci si concentra sul proprio respiro e ci si fida di lui, del suo ritmo, della sua capacità di continuare il suo mestiere senza il
nostro controllo.

La voce, i vocalizzi (vedi IL PARTO E LE SUGGESTIONI D’ORIENTE) durante le contrazioni non sono soltanto un modo per esprimere il dolore, ma sono anche espressione di sé e della propria identità e può essere di conforto nel momento in cui ci si deve abbandonare oltre i propri confini. Infatti la voce è in continua trasformazione insieme all’evento del parto e porta un continuo rimando sia di ciò che sta accadendo (ad esempio si riflettono nella voce tutti i cambiamenti fisici), sia della propria integrità e continuità. Posso cantare il mio dolore, se mi sento in imbarazzo posso cantare anche il mio imbarazzo e concentrandomi sul suono che esce da me posso trasformarlo in un suono che mi piaccia di più, che mi dia serenità. Per favorire questa trasformazione, forse mi verrà spontaneo cambiare posizione, utilizzare altri muscoli e questo si rifletterà nella voce e nel corpo in un continuo ciclo di accomodamento. È infatti il corpo stesso lo strumento musicale della voce: se vi sono cambiamenti nel corpo, ci saranno nella voce e se ci sono cambiamenti nella voce, ci saranno nel corpo. Durante il parto, cantare rassicura e rilassa la mamma ma anche il bambino, che partecipa attivamente al parto.

Il respiro in una certa misura, la voce in maniera più forte perché torna come suono, danno alla partoriente la possibilità di sperimentarsi nella sua interezza: nonostante i confini cambino fisicamente e mentalmente, io non mi sto spezzando, io sono il mio respiro, io sono la mia voce.

Un altro elemento banale, ma molto utile è la borsa dell’acqua calda: portatevela da casa, anche elettrica perché può essere sufficiente ad alleviare il dolore e allentare i muscoli. A questo scopo può contribuire anche un massaggio.

Quindi insieme alla valigia per l’ospedale, ricordatevi di preparare la borsa dell’acqua calda, un lettore mp3 o simili e una musica ritmica.

E quando arrivano le contrazioni, lasciate a qualcun altro il compito di contare il tempo che passa: voi concentratevi sul vostro respiro e cantate la vostra trasformazione con dei vocalizzi e affidatevi al vostro istinto lasciando spegnere la razionalità.

Dr.ssa Violetta Molteni

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